"Se ’l formaggio un non lo chiami cacio, la formica ‘un la chiami cudèra e l’ombra mèria, che maremmano sei, porca miseria?".
Queste tre righe racchiudono sicuramente la voglia di difendere, di conservare e trasmettere il nostro modo di parlare. In Maremma non c’è dialetto, semplicemente si parla un italiano un po’ storpiato “per comodità”, un modo di comunicare veloce ed efficace.
Le parole del maremmano risentono sicuramente della c aspirata tipica di tutta la Toscana e della troncatura dell’ultima sillaba dei verbi all’infinito. Il nostro parlare mi fa ripensare alle merende fatte con le fette di pane e pomodoro accompagnate dai racconti dei nonni. Sono i ricordi di quando eravamo cittini (bambini piccoli), di quando ti facevano tornare in casa con un bercio (urlo) fatto dall’uscio (porta di casa) e poi ti chiedevano se fuori, con gli amici, eri stato boncitto (bravo) o se, come al solito, avevi fatto un canaio (confusione).
In questo caso rischiavi una labbrata (schiaffo), sennò ti mettevi a cecce (a sedere), facendo attenzione a “un andà a bucoritto” (cadere) e cominciavi ad ascoltare quei discorsi. Belli, soprattutto quando potevi ciaccare (ficcare il naso) negli affari altrui, magari di qualche sciabordito (persona con poco cervello). E poi facevi merenda con almeno due regole: non dovevi biasciare (masticare sbavando) e dovevi bere piano se l’acqua era diaccia marmata (molto fredda).
E se eri parecchio d’appetito potevi sentirti dire “collo nini, mangi più d’un tribunale” con il rischio di diventare poi bello gadollo (cicciottello). In Maremma c’è un lessico tramandato soprattutto oralmente e pochissimo in maniera scritta, spesso snobbato dalle generazioni più giovani attratte da espressioni che non fanno parte del nostro parlare.
Dimenticare ciò che ci caratterizza è un impoverimento del nostro essere. Provate a chiedere in giro cosa vuol dire “nottolo” (persona di scarse vedute) e troverete chi risponderà cercando “fichi su’ pe’ peri” (arrampicandosi sugli specchi).